Ventidue anni fa. Era minuta e magrissima, come sempre. Aveva i capelli un po' sforbiciati e vestiva, in un modo un po' imprevedibile. La vedevamo poco, al giornale, che era Novella, assai prima che divenisse Novella 2000 e stava attraversando un periodo fortunoso e fortunato di trasformazione. Da giornale tradizionalmente dedicato alla narrativa si stava timidamente aprendo a qualche nuovo interesse di attualità che strappasse le ragazze e le donne d'allora al puro svago di evasione per agganciarle alla quotidianità, alla vita. In quel giornale, la rubrica di gran lunga più letta era la doppia pagina di Candida. E Candida era Brunella Gasperini, che firmava le risposte alle lettrici con quello pseudonimo, ereditato anni prima da Camilla Cederna. lo curavo redazionalmente quelle pagine e Brunella talora mi sgridava (ero una giovane redattrice inesperta) perché, quadrando una bozza, le tagliavo una battuta. Mi sgridava per telefono perché, anche allora, viveva di telefono. Poi ci conoscemmo meglio. Parlavamo. Lei della casa sul lago, in Valsolda, la famosa casa rossa che divenne quasi protagonista di uno dei suoi romanzi, Le ragazze della villa accanto, la casa che veniva periodicamente ridipinta da tutta la famiglia, amici compresi, impegnati in allucinanti domeniche con scale, secchi di vernice e rulli da imbianchino. O della casa in città, nella quale il compagno della sua vita aveva costruito una libreria utilizzando delle cassette per la verdura. O dei figli, o dei personaggi dei suoi romanzi: il famoso “ Carîsna” di cui s'innamorarono tutte le sue lettrici, o il « terrone » immigrato a Milano dalle Puglie, così povero che mangiava pane e margarina ma suonava la tromba come un angelo, il ragazzo disperato delle « Note blu » innamorato di una donna bionda che, ahinoi, aveva un passato. Eravamo agli inizi degli anni Sessanta e le sue storie, pur entro certi limiti che imbavagliavano la narrativa per le donne, avevano un'aderenza alla realtà, una incisività di linguaggio, una verità psicologica, un tocco leggero che le preservava dal pericolo dei sentimentalismi, uno humour di tipo nostrano, ma sottile e caldo, immediato, sempre godibile. È di lei donna giovane, di lei scrittrice di romanzi che voglio parlare, ricordandola. Perché i suoi racconti di famiglia e i suoi romanzi avevano uno stacco di qualità, rispetto alla cosiddetta narrativa rosa. Ripensandoli, sono un affresco della nostra giovinezza, della nostra quotidianità di allora, del nostro modo ingenuo, integrale, colpevolizzato, drammatico e pur baldanzoso di calarci nelle emozioni, di vivere l'amore sempre con la maiuscola, perché così ci avevano insegnato, altrimenti che amore era. E Brunella, narratrice, criticava dall'interno questi e altri miti, gli faceva il verso senza però depauperarci mai di quei valori profondi in mancanza dei quali ci saremmo sentite sgomente. Un lungo cammino anche per lei, che è cresciuta insieme alle sue opere, insieme alle duecentocinquantamila lettere ricevute, alle migliaia e migliaia di telefonate cui rispondeva con pazienza o bruschezza, sincerità e comprensione, con la voce commossa o la battuta tagliente. Di lei amavo, e condivido, la fiducia nella parola. Non si arrendeva mai quando pensava che la parola potesse analizzare,chiarire, aiutare. Non era consolatoria, era lucida nel suo dire e nel suo scrivere. Aveva appreso dal dolore che solo la verità e la chiarezza rendono liberi interiormente, e a questo stimolava le sue lettrici sia rispondendo nella posta, sia nelle sue storie. Quando mi regalò il suo ultimo romanzo, con una dedica schiva, dall'espressione tipicamente lombarda: « Alla Gabriella, con la mia amicizia », mi accorsi che questo libro lei lo viveva, ormai stampato e licenziato per il mondo, come un figlio che aspettava venisse riconosciuto dagli altri. « Perché è diverso, capisci?, dagli altri », mi diceva in lunghi colloqui che sono, veramente, i nostri ultimi incontri, « perché ci ho messo qualcosa che non saprei dirti ». Una profondità, una sprezzatura, una rabbia che le erano consuete ma che, questa volta, erano giunte alla radice di sé. Si era consegnata, lei che confessava: « Non sono più capace di scrivere se non in prima persona, non mi viene ». Sperava che la critica non la ignorasse come aveva fatto per tutti gli altri suoi libri. E questa volta le recensioni apparvero e furono positive e talora polemiche, ma bene, bene, purché fossero. Non era il successo che rincorreva (e poi l'aveva avuto era notissima e i suoi libri si vendevano come pane) ma il riconoscimento che lei era qualcuno, benché donna, che con la penna viveva, si esprimeva, si realizzava. Il suo bisogno di esistere come scrittore. L'ultima volta che ci vedemmo, poco prima di Capodanno, era felice. « Sai, sono in testa alla classifica di vendite col mio libro. Alla fine sono sempre i lettori che ti ripagano ». Appena in tempo.
Gabriella Magrini
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