martedì 2 agosto 2011

Cominciammo ad amarla col nome di Candida

Ventidue anni fa. Era minuta e magrissima, come sempre. Aveva i capelli un po' sforbi­ciati e vestiva, in un modo un po' imprevedibile. La vedevamo poco, al giornale, che era Novella, assai prima che divenisse Novella 2000 e stava attraversando un periodo fortunoso e fortunato di tra­sformazione. Da giornale tradi­zionalmente dedicato alla nar­rativa si stava timidamente a­prendo a qualche nuovo inte­resse di attualità che strappas­se le ragazze e le donne d'allo­ra al puro svago di evasione per agganciarle alla quotidiani­tà, alla vita. In quel giornale, la rubrica di gran lunga più letta era la doppia pagina di Candida. E Candida era Bru­nella Gasperini, che firmava le risposte alle lettrici con quello pseudonimo, ereditato anni pri­ma da Camilla Cederna. lo cu­ravo redazionalmente quelle pa­gine e Brunella talora mi sgri­dava (ero una giovane redattri­ce inesperta) perché, quadran­do una bozza, le tagliavo una battuta. Mi sgridava per telefo­no perché, anche allora, viveva di telefono. Poi ci conoscemmo meglio. Parlavamo. Lei della casa sul lago, in Valsolda, la famosa ca­sa rossa che divenne quasi pro­tagonista di uno dei suoi ro­manzi, Le ragazze della villa accanto, la casa che veniva pe­riodicamente ridipinta da tutta la famiglia, amici compresi, im­pegnati in allucinanti domeni­che con scale, secchi di vernice e rulli da imbianchino. O della casa in città, nella quale il compagno della sua vita aveva costruito una libreria utilizzan­do delle cassette per la verdu­ra. O dei figli, o dei personaggi dei suoi romanzi: il famoso “ Carîsna” di cui s'innamora­rono tutte le sue lettrici, o il « terrone » immigrato a Mila­no dalle Puglie, così povero che mangiava pane e margarina ma suonava la tromba come un angelo, il ragazzo disperato del­le « Note blu » innamorato di una donna bionda che, ahinoi, aveva un passato. Eravamo agli inizi degli anni Sessanta e le sue storie, pur entro certi li­miti che imbavagliavano la nar­rativa per le donne, avevano un'aderenza alla realtà, una in­cisività di linguaggio, una ve­rità psicologica, un tocco legge­ro che le preservava dal perico­lo dei sentimentalismi, uno humour di tipo nostrano, ma sottile e caldo, immediato, sem­pre godibile. È di lei donna giovane, di lei scrittrice di romanzi che voglio parlare, ricordandola. Perché i suoi racconti di famiglia e i suoi romanzi avevano uno stac­co di qualità, rispetto alla co­siddetta narrativa rosa. Ripen­sandoli, sono un affresco della nostra giovinezza, della nostra quotidianità di allora, del no­stro modo ingenuo, integrale, colpevolizzato, drammatico e pur baldanzoso di calarci nelle emozioni, di vivere l'amore sempre con la maiuscola, per­ché così ci avevano insegnato, altrimenti che amore era. E Brunella, narratrice, criticava dall'interno questi e altri miti, gli faceva il verso senza però depauperarci mai di quei valo­ri profondi in mancanza dei quali ci saremmo sentite sgo­mente. Un lungo cammino an­che per lei, che è cresciuta in­sieme alle sue opere, insieme alle duecentocinquantamila let­tere ricevute, alle migliaia e migliaia di telefonate cui ri­spondeva con pazienza o bru­schezza, sincerità e compren­sione, con la voce commossa o la battuta tagliente. Di lei amavo, e condivido, la fiducia nella parola. Non si ar­rendeva mai quando pensava che la parola potesse analizza­re,chiarire, aiutare. Non era consolatoria, era lucida nel suo dire e nel suo scrivere. Aveva appreso dal dolore che solo la verità e la chiarezza rendono liberi interiormente, e a questo stimolava le sue lettrici sia ri­spondendo nella posta, sia nel­le sue storie. Quando mi regalò il suo ultimo romanzo, con una dedica schiva, dall'espressione tipicamente lombarda: « Alla Gabriella, con la mia amici­zia », mi accorsi che questo li­bro lei lo viveva, ormai stam­pato e licenziato per il mondo, come un figlio che aspettava venisse riconosciuto dagli altri. « Perché è diverso, capisci?, da­gli altri », mi diceva in lunghi colloqui che sono, veramente, i nostri ultimi incontri, « per­ché ci ho messo qualcosa che non saprei dirti ». Una profon­dità, una sprezzatura, una rab­bia che le erano consuete ma che, questa volta, erano giunte alla radice di sé. Si era conse­gnata, lei che confessava: « Non sono più capace di scri­vere se non in prima persona, non mi viene ». Sperava che la critica non la ignorasse come aveva fatto per tutti gli altri suoi libri. E que­sta volta le recensioni apparve­ro e furono positive e talora polemiche, ma bene, bene, pur­ché fossero. Non era il succes­so che rincorreva (e poi l'aveva avuto era notissima e i suoi li­bri si vendevano come pane) ma il riconoscimento che lei era qualcuno, benché donna, che con la penna viveva, si esprimeva, si realizzava. Il suo bisogno di esistere come scrit­tore. L'ultima volta che ci vedem­mo, poco prima di Capodanno, era felice. « Sai, sono in testa alla classifica di vendite col mio libro. Alla fine sono sem­pre i lettori che ti ripagano ». Appena in tempo.


Gabriella Magrini

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