mercoledì 3 agosto 2011

Carrie e le sue dirtypillows…


… che in italiano sono diventate sporchetette (come se fosse stata una parola sola).
E qui comincia il nostro viaggio tra le traduzioni dei romanzi di King in italiano, impresa in cui si sono cimentati diversi traduttori, con maggiore o minore successo.
Carrie è il primo romanzo di King e il suo stile era ben diverso da quello attuale. Più rozzo, forse, più diretto. Uno scrittore non ancora convinto dei propri mezzi.
Questo stile è stato ben riprodotto da Brunella Gasperini nel suo lavoro svolto per la Bompiani nel 1977, tre anni dopo l'uscita americana.
Se state leggendo questo articolo, sicuramente avrete letto il libro, se non lo avete fatto, vi invito a farlo per due motivi: 1) è un gran bel libro, e nemmeno troppo grosso; leggero da leggere; 2) vi anticiperò diverse cose della trama, quindi state attenti!
E se avete letto il romanzo, saprete che si apre con la "parte prima - doccia di sangue" (nell'originale inglese un secco "Blood Sport") che inizia con un articolo di giornale in cui c'è un'aggiunta ("Non si hanno commenti diretti") e una leggerezza: il nome della protagonista scritto come "Carrie" fin da ora, mentre King, giustamente, lo riporta per intero (Carietta), trattandosi di un articolo di giornale. Ben poca cosa comunque, abituati ormai ad errori ben più gravi.
La traduzione della Gasperini va avanti per tutto il romanzo mantenendosi fedele allo spirito e soprattutto al tono dell'originale, adattando il suo italiano al ritmo di King, con un giusto equilibrio tra schiettezza espositiva e volgarità controllata.
Tra i personaggi, chi ha la peggio, in termini di resa, sono quelli che hanno un linguaggio più colloquiale e diretto, come Billy Nolan e Chris Hangersen, l'uomo del Kelly's e così via, e in alcuni passaggi iniziali, Miss Desjardin risulta meno secca e autoritaria… ma sono limiti della nostra lingua e non della traduttrice. Raramente l'originale è alleggerito e solo in un paio di occasioni manca qualcosa rispetto all'originale. Pensiamo per esempio al crudo passo in cui King ci schiaffeggia con gli scherzi subiti da Carrie in anni e anni, beh, in italiano inizia più o meno così:
"C'erano stati tutti quegli anni: tutti quegli anni di facciamo il sacco
al letto da campo di Carrie * e nascondiamo da qualche parte
le sue mutande e mettiamole questa biscia in una scarpa…"
mentre l'originale inglese recitava:
"… let's short-sheet Carrie's bed at Christian Youth Camp and
I found this love letter from Carrie to Flash Bobby Pickett let's
copy it and pass it around
 and hide…"
mi sono preso la libertà di marcare con il grassetto la parte mancante e segnarla con un * in italiano.
La domanda è… Perché?
Censura?
E come si spiegherebbe il fatto che quando King ci dice che la Desjardin aveva vinto in una collegearchery competition in italiano ci viene detto solo "Vinto in una gara universitaria…"?
Sono piccolezze, certo… ma Perché?!
E, così come Carrie al posto di Carietta, più avanti Estelle Horan è direttamente Stella e in molti altri punti riferimenti diretti di King alla realtà americana vengono generalizzati. Quindi quando la stessa Stella si accende la seconda Virgina Slim viene generalizzato in una seconda sigaretta e quando assume "an odd pinched look, that is more like Lovecraft out of Arkham than Kerouac out of Southern Cal", in italiano si dice che "la sua faccia prende un'espressione diversa, tirata, angosciata, molto poco californiana."
Sintomi di mancato rispetto nella cultura di base e capacità di entrare in una realtà diversa dei lettori italiani? Una cosa che si potrebbe pensare della signora Gasperini quando parla di "Clave da ginnastica" traducendo "Softball bats"!
Ma, come dicevo, sono piccolezze, così come lo sono 400 morti invece di 200 (ma era preveggenza giustificata in un libro sulla telecinesi, visto che lo stesso King alla fine totalizza oltre 400 morti e 49 feriti) e la pressione sanguigna a 190-200 invece di 190-100. Piccolezze che non ammazzano lo stile globale di Carrie nella nostre lingua.
Piccole differenze e mancanze che non ci devono lasciar distrarre da una realtà concreta: e cioè che il King del 1974 è vivo e presente nella versione italiana del suo primo romanzo!
Ma dobbiamo parlare di merito della Gasperini o di demerito di King?
Non per essere ipercritico (la traduzione di Carrie non lo merita affatto), ma vorrei sottolineare un ultimo punto prima di chiudere: laddove King osa e si intravedono le ombre del suo futuro, la Gasperini non lo segue. E non parlo solo dell'unico gioco di parole che in italiano non viene mantenuto (durante la dichiarazione di parità delle due coppie durante il ballo, l'annunciatore esclama al microfono "we've got a tie" e tra i mormorii di risposta della folla, George Dawson ribatte "Polka dots or striped?" suscitando le risate generali con il suo riferimento alle cravatte), ma di tutta la lettera finale, quella firmata Melia, che in inglese è scritta in uno stile non solo non letterario, ma zeppo di errori e caduto nello slang, che ricordano (o sarebbe meglio dire anticipano) la parlata di tanti personaggi del futuro kinghiano.
La Gasperini sarebbe quindi stata capace di rendere lo stile diretto e colloquiale di Dolores Claiborne? Avrebbe mantenuto la poesia di Hearts in Atlantis?
Ovviamente non c'è una possibile risposta a questa domanda… limitiamoci a ringraziare per questa buona traduzione di Carrie.


Brunella Gasperini. (da "Italiane del novecento")


Le ex ragazze degli anni Sessanta se la ricordano bene, Brunella Gasperini. La sua rubrica di piccola posta su Annabella è stata, in quegli anni, una sorta di collettivo virtuale e allargato che prefigurava i futuri gruppi di “autocoscienza” del femminismo militante. Uno spazio caotico, ma traboccante passione e vitalità, che consentiva alle donne un insolito esercizio di libertà di parola. Lei, dalla piccola foto in cima alla pagina, rivolgeva alle lettrici il suo sguardo materno, non privo di una benevola sfumatura ironica, all’ombra di occhiali giganteschi che coprivano il faccino minuto. Presenza essenziale e poco ingombrante, autorevole e per niente autoritaria, la Gasperini lasciava divampare le discussioni epistolari su temi come verginità, civetteria, contraccezione, ribellioni generazionali e conflitti familiari, esprimendo con fermezza la propria opinione, vibrante e incisiva, senza mai pretendere di offrire la parola conclusiva, il verdetto finale. Nel 1950 Bianca Robecchi, laureata in lettere classiche e già sposata con Adelmo Gasperini, inizia su Novella la sua carriera giornalistica, scegliendo uno pseudonimo che opera solo un piccolo slittamento semantico rispetto al nome vero: Candida. Ma quando trasloca ad Annabella decide di abbandonare le simbologie della purezza, e vira decisamente sul versante opposto, firmandosi Brunella. In questo innocuo cambiamento sono contenute, in realtà, la sua poetica e la sua politica. La purezza, per le donne, ha per lungo tempo crudamente coinciso con la verginità, identificata socialmente dai segni del pudore e della modestia. La Gasperini vuole rovesciare il canone, mettendo sotto accusa le apparenze per esaltare i contenuti, e cioè la limpidezza di intenti, l’onestà dei sentimenti. All’esteriorità convenzionale dei modelli femminili contrappone la rivelazione dell’autenticità interiore, di un’innocenza profonda vestita di panni insospettabili. I personaggi dei suoi racconti sono sempre dei diversi (blandamente, ma scandalosamente, diversi) che nascondono una generosità e una moralità più vere. «È facile essere angeli quando se ne hanno l’aspetto e la voce, quando si hanno miti occhi azzurri e un dolce sorriso» (L’estate dei bisbigli, Rizzoli 1956); invece gli angeli di Brunella sono ragazze tenebrose di incerte origini, nonni anarchici e semi-alcolizzati, biondone svampite, adolescenti ostici e trasgressivi. La sua narrativa si mantiene ancora dentro i confini del romanzo rosa, allargando però l’inquadratura. I riflettori non illuminano più soltanto la coppia, ma anche gli amici, i parenti, il contesto sociale: al conflitto sessuale si affianca quello generazionale, il rosa si ibrida con il romanzo di formazione. L’amore diventa rito iniziatico, passaggio verso l’età adulta, e la crisi amorosa rappresenta l’imbuto per uscire dall’adolescenza. È uno scarto notevole rispetto al rigido isolamento del classico loveworld, l’universo chiuso del rapporto a due; qui ad essere messo in discussione è il mondo dei padri, l’organizzazione della famiglia borghese e la sua scala di valori. Quello di Brunella Gasperini è un riformismo lucido e prudente, che non punta a sovvertire l’ordine familiare ma a rifondarlo, attraverso un rinnovamento sostanziale dei modelli. La famiglia è il cuore pulsante della sua narrativa, un mondo elastico e onnicomprensivo in cui sentimenti e risentimenti si rapprendono e si espandono, in cui tutti vengono accettati, contenuti, riassorbiti. Per questo i migliori scritti della Gasperini sono quelli più scopertamente autobiografici, in cui racconta di sé, delle sue case e dei suoi animali, dei figli e degli amici dei figli. La serie diaristica (Io e loro. Cronache di un marito; Lui e noi. Cronache di una moglie; Noi e loro. Cronache di una figlia; tutti pubblicati da Rizzoli tra il ’59 e il ’65, e poi raccolti nel ’70 nel volume Siamo in famiglia) adombra con chiarezza la vera famiglia Gasperini, sia pure trasfigurata secondo il codice tipico dell’autrice. C’è un padre iroso e burbero, che prende pesantemente in giro soprattutto la moglie («la scrittora») e il figlio («il mentecatto») ma è profondamente legato al suo piccolo nucleo e lo difende da ogni attacco esterno. C’è la figlia seria, taciturna e sognatrice, il figlio ribelle che suona il sassofono («il piffero», secondo l’ironico genitore), e poi la carovana multicolore di parenti e amici. Ma soprattutto c’è lei, la madre, descritta così: «Raggomitolata sul divano nel suo mare di lettere sparse, coi cani ai piedi, i gatti in grembo, stormi di uccellini trillanti intorno alla testa, ha l’aria di essere sordomuta, come sempre quando lavora o fa finta». È l’immagine di una donna pensante, indipendente, eppure in misteriosa relazione di scambio affettivo con tutto quel che la circonda, siano animali, figli o lettrici. In questo cerchio amoroso ogni differenza, anche quella di specie, viene annulla- ta, come sarà evidente nell’ultimo libro della Gasperini, il più amato, Una donna e altri animali (Rizzoli ’78). Franco Cordelli, con calore partecipe, l’ha definito «un romanzo scritto (senza sapere e tuttavia sapendo) sull’orlo del precipizio: vi si narra di una malattia che l’autrice crede superata e che verosimilmente non lo era (la Gasperini morirà l’anno dopo a 61 anni). Un romanzo scaturito da un’ansia, dunque pieno come un uovo, germinale, di ubriacante fertilità». Tutti i dolori di una vita, anche quelli sempre taciuti (come la morte del primo figlio, un neonato che teneva in braccio quando fu travolta dalla folla in fuga durante un bombardamento) fermentano, ribollono, in questo libro dove «tutto pulsa, tutto corre», dove nascite e morti si susseguono e ogni avvenimento è «gridato ad alta voce, detto a mezza voce, sussurrato tra sé e sé». Resta il dubbio su quanto, in questa scrittrice abituata a sciorinare i panni in pubblico e a offrirsi in piena luce, ci sia di artificio utopico e consolatorio, quanto la mite, ironica Brunella abbia usato l’autobiografia come finzione più intima e personale che letteraria, ritoccando sulla pagina la propria immagine e la propria vita matrimoniale per averne, di rimando, un po’ di sollievo. Una sua collega, Giulia Oliosi, l’ha dipinta così: «Era riuscita a dare un’immagine di sé svagata, allegra e innocente che reggeva. Quanto a lei, che non era affatto svagata, né allegra, né particolarmente innocente, avrebbe retto a lungo allo stress di quel lavoro e di quell’ambiente, guadagnandosi un’ulcera di cui infine sarebbe morta».

Eugenia Roccella


martedì 2 agosto 2011

Ricordo di Brunella


Se ne è an­data così, in modo leggero, schivo, co­me era lei, Brunella Gasperini, tanto ri­servata quanto clamorosamente esplici­ta nel dire di se stessa, nel raccontarsi, in quello stupendo, ineguagliabile rap­porto che seppe creare con tutti, donne, uomini e adolescenti di diverse genera­zioni. Per un quarto di secolo ci ha ascol­tati e ci ha parlato, con una capacità di intuire situazioni e di leggere emozioni che ne fanno un caso unico nella storia della posta dei femminili. Leggeva ogni lettera, ne ricordava a distanza di tem­po i contenuti e persino la grafia, rico­nosceva immediatamente chi le aveva scritto altre volte. E chi si era conse­gnato in quello scritto riceveva da lei una risposta che sapeva creare, e que­sto ci ha sempre stupiti, un rapporto quasi fisico, sì un legame profondo di amicizia, e stima. Scriveva della sua vita piena di dolo­ri, di affetti perduti, di ribellioni, di lotte e di conquiste e quindi si proiet­tava nella nostra, senza mai prevarica­re, senza toni perentori, tollerante ed al tempo stesso fermissima nelle proprie opinioni. Questo è stato il tratto speci­fico della sua complessa personalità e del suo temperamento: la civiltà dei rapporti, la tolleranza non compromis­soria. Lei, antifascista, con quattro fratelli partigiani, con la giovinezza vissuta du­rante la guerra e un figlio che le morì tra le braccia durante un bombarda­mento, lei sapeva capire anche chi i­deologicamente le era nemico. In un rapporto dialettico che l'aveva fatta cre­scere e maturare insieme alle centinaia di migliaia di donne che a lei si erano rivolte. Con una straordinaria capacità di armonizzare il quotidiano, il privato, con gli aspetti che ogni individuo vive nel collettivo. Ma fermiamoci qui. Rimangono le sue pagine. Dove il dialogo con la vita degli altri ci può ancora accompagnare. Anche questo fa parte della sua ere­dità.

Luciana Omicini

Cominciammo ad amarla col nome di Candida

Ventidue anni fa. Era minuta e magrissima, come sempre. Aveva i capelli un po' sforbi­ciati e vestiva, in un modo un po' imprevedibile. La vedevamo poco, al giornale, che era Novella, assai prima che divenisse Novella 2000 e stava attraversando un periodo fortunoso e fortunato di tra­sformazione. Da giornale tradi­zionalmente dedicato alla nar­rativa si stava timidamente a­prendo a qualche nuovo inte­resse di attualità che strappas­se le ragazze e le donne d'allo­ra al puro svago di evasione per agganciarle alla quotidiani­tà, alla vita. In quel giornale, la rubrica di gran lunga più letta era la doppia pagina di Candida. E Candida era Bru­nella Gasperini, che firmava le risposte alle lettrici con quello pseudonimo, ereditato anni pri­ma da Camilla Cederna. lo cu­ravo redazionalmente quelle pa­gine e Brunella talora mi sgri­dava (ero una giovane redattri­ce inesperta) perché, quadran­do una bozza, le tagliavo una battuta. Mi sgridava per telefo­no perché, anche allora, viveva di telefono. Poi ci conoscemmo meglio. Parlavamo. Lei della casa sul lago, in Valsolda, la famosa ca­sa rossa che divenne quasi pro­tagonista di uno dei suoi ro­manzi, Le ragazze della villa accanto, la casa che veniva pe­riodicamente ridipinta da tutta la famiglia, amici compresi, im­pegnati in allucinanti domeni­che con scale, secchi di vernice e rulli da imbianchino. O della casa in città, nella quale il compagno della sua vita aveva costruito una libreria utilizzan­do delle cassette per la verdu­ra. O dei figli, o dei personaggi dei suoi romanzi: il famoso “ Carîsna” di cui s'innamora­rono tutte le sue lettrici, o il « terrone » immigrato a Mila­no dalle Puglie, così povero che mangiava pane e margarina ma suonava la tromba come un angelo, il ragazzo disperato del­le « Note blu » innamorato di una donna bionda che, ahinoi, aveva un passato. Eravamo agli inizi degli anni Sessanta e le sue storie, pur entro certi li­miti che imbavagliavano la nar­rativa per le donne, avevano un'aderenza alla realtà, una in­cisività di linguaggio, una ve­rità psicologica, un tocco legge­ro che le preservava dal perico­lo dei sentimentalismi, uno humour di tipo nostrano, ma sottile e caldo, immediato, sem­pre godibile. È di lei donna giovane, di lei scrittrice di romanzi che voglio parlare, ricordandola. Perché i suoi racconti di famiglia e i suoi romanzi avevano uno stac­co di qualità, rispetto alla co­siddetta narrativa rosa. Ripen­sandoli, sono un affresco della nostra giovinezza, della nostra quotidianità di allora, del no­stro modo ingenuo, integrale, colpevolizzato, drammatico e pur baldanzoso di calarci nelle emozioni, di vivere l'amore sempre con la maiuscola, per­ché così ci avevano insegnato, altrimenti che amore era. E Brunella, narratrice, criticava dall'interno questi e altri miti, gli faceva il verso senza però depauperarci mai di quei valo­ri profondi in mancanza dei quali ci saremmo sentite sgo­mente. Un lungo cammino an­che per lei, che è cresciuta in­sieme alle sue opere, insieme alle duecentocinquantamila let­tere ricevute, alle migliaia e migliaia di telefonate cui ri­spondeva con pazienza o bru­schezza, sincerità e compren­sione, con la voce commossa o la battuta tagliente. Di lei amavo, e condivido, la fiducia nella parola. Non si ar­rendeva mai quando pensava che la parola potesse analizza­re,chiarire, aiutare. Non era consolatoria, era lucida nel suo dire e nel suo scrivere. Aveva appreso dal dolore che solo la verità e la chiarezza rendono liberi interiormente, e a questo stimolava le sue lettrici sia ri­spondendo nella posta, sia nel­le sue storie. Quando mi regalò il suo ultimo romanzo, con una dedica schiva, dall'espressione tipicamente lombarda: « Alla Gabriella, con la mia amici­zia », mi accorsi che questo li­bro lei lo viveva, ormai stam­pato e licenziato per il mondo, come un figlio che aspettava venisse riconosciuto dagli altri. « Perché è diverso, capisci?, da­gli altri », mi diceva in lunghi colloqui che sono, veramente, i nostri ultimi incontri, « per­ché ci ho messo qualcosa che non saprei dirti ». Una profon­dità, una sprezzatura, una rab­bia che le erano consuete ma che, questa volta, erano giunte alla radice di sé. Si era conse­gnata, lei che confessava: « Non sono più capace di scri­vere se non in prima persona, non mi viene ». Sperava che la critica non la ignorasse come aveva fatto per tutti gli altri suoi libri. E que­sta volta le recensioni apparve­ro e furono positive e talora polemiche, ma bene, bene, pur­ché fossero. Non era il succes­so che rincorreva (e poi l'aveva avuto era notissima e i suoi li­bri si vendevano come pane) ma il riconoscimento che lei era qualcuno, benché donna, che con la penna viveva, si esprimeva, si realizzava. Il suo bisogno di esistere come scrit­tore. L'ultima volta che ci vedem­mo, poco prima di Capodanno, era felice. « Sai, sono in testa alla classifica di vendite col mio libro. Alla fine sono sem­pre i lettori che ti ripagano ». Appena in tempo.


Gabriella Magrini

LA SIGNORA DEL CUORE


Il divorzio non esisteva, la convivenza era uno scandalo, parlare di contraccettivi un reato che l'articolo 553 del codice penale puniva con un anno di reclusione e 400 mira lire di multa. Nessun giornale femminile aveva mai pubblicato la parola "utero". In compenso, i figli senza padre venivano comunemente definiti "bastardi", e "svergognate" e "ragazze perdute" ricorrevano nel lessico censorio. La donna che non si sposava (zitella) era una "spostata" e quella separata evocava d'istinto giudizi negativi e sinonimi dal sapore equivoco: donna anomala, disponibile, spregiudicata.
E' in quell'Italia di inizio anni Cinquanta che nasce il fenomeno Brunella Gasperini. E' una trentenne sposata e madre di due bambini piccoli che, scordata in un cassetto la laurea in lettere, a un certo punto decide di "fare qualcosa" e comincia ad inviare racconti ai giornali femminili. Il primo glielo pubblica Novella, il secondo Annabella. Sono storie di tenera e ordinaria quotidianità che contrastano con le trame passionali e drammatiche dell'epoca e che le valgono una immediata popolarità.


DUE SACCHI PIENI DI LETTERE


Sull'onda di quel successo approda alla POSTA DEL CUORE. Brunella va in redazione per ritirare le prime lettere e trova due sacchi pieni. E' un impatto esaltante, ma anche sconvolgente, con la realtà di un universo femminile che per la prima volta sembra materializzarsi con storie di sofferenze, ribellioni e inquietudini sommerse.
Le scrivono giovanissime e anziane, madri e figlie, mogli e amanti: si fidano di lei e Brunella non tradisce la loro fiducia. Denuncia, ríbellati, vivi la tua vita, chiedi la separazione, va a convivere, scrive.
Ora la casa editrice Baldini & Castoldi pubblica una scelta di quelle lettere e di quelle risposte, scritte tra il 1954 e il 1979: il volume si intitola "Più botte che risposte". (lire 26.000 pagg. 264).
Seguiranno "L'estate dei bisbigli" e altri cinque romanzi della Gasperini.
Il rapporto che Brunella intrattiene con le lettrici rappresenta la rottura con i tabù e le ipocrisie dell'epoca, ma anche la nascita di una nuova e ferrea morale: è bene tutto ciò che può renderci felici o sottrarci alla sofferenza, è male tutto ciò che otteniamo sacrificando la nostra dignità e il rispetto per gli altri.
Non tutti capivano questo. Le sue risposte erano di rottura anche quando esortavano alla sopportazione e alla rinuncia: vi furono sacerdoti che la contestarono (persino dal pulpito!) e benpensanti che le inviarono lettere di minaccia. Una volta finì addirittura in cronaca: ricevette un pacco che conteneva un ordigno esplosivo. Un'altra volta una sedicente "mamma amica" le inviò a casa una torta che conteneva un antiparassitario letale. Quello che molti non le perdonavano era anche l'ironia, dote a quei tempi non accreditata alle donne. Brunella aveva un senso dell'umorismo eccezionale, grazie al quale esorcizzava e superava i propri limiti. Se fu la prima giornalista-scrittrice ad affrontare i temi della tossicodipendenza, dell'aborto, dell'emancipazione sessuale, fu anche la prima a cogliere i lati comici della routine, dell'amore sacrificale, dei conflitti tra genitori e figli, delle prepotenze del marito-macho. Nelle sue lettere parlava spesso di se stessa, del suo matrimonio, dei suoi figli, dei suoi mille acciacchi: lo faceva con tenerezza e umiltà.
Ammettendo di essere una madre imperfetta e una moglie scomodissima.


UN MODELLO INIMITABILE


Dopo la sua morte, toccò a me ereditare su Annabella la sua rubrica. Per i primi mesi, la maggior parte delle lettere che ricevetti esprimevano grandi dubbi sulla mia capacità di potermi confrontare con lei. Furono i dubbi che mi accompagnarono per i quattro anni e mezzo di quell'esperienza. Sicuramente la più faticosa, perché dietro ogni risposta c'era un'eredità di rigore e di scrupolo unita alla certezza di inseguire un modello inimitabile.
Brunella di fatto è stata e rimane un fenomeno irripetibile. Sono passati 18 anni dalla sua morte e tante cose sono cambiate nella coppia, nella società, nelle leggi, nel costume. Oggi esistono le donne manager, le donne single, le amazzoni della libertà. "Separata" può essere il sinonimo di coraggiosa, le svergognate e i bastardi sono spariti dal lessico, si è finalmente acquisito che può esservi l'amante nobile e la moglie indegna.
E sono cambiate anche le lettere: si scrive ai giornali più per raccontarsi e avere conferme che per chiedere aiuto, forti di temerarietà e sicurezza che le interlocutrici di Brunella Gasperini non potevano avere. Eppure, rileggendo le sue risposte di allora, si prova una sensazione di straordinaria attualità. E le analisi più ironiche, le esortazioni più giuste sono quelle che ci ha lasciato lei. Noi donne siamo superiori al maschio, diceva, e per questo ci toccherà sempre abbozzare, scegliere, pagare... 

Maria Venturi

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